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SpeakItalianInRome

Learning Italian in Rome

L’italiano è l’immagine evocativa e sonora di intenzioni, emotività e cultura. E’ una lingua “inutile”, nel quadro economico globale, dominato dall’Inglese. Una lingua dalla grammatica complessa, dal lessico ampio, dal ritmo e dal suono modulato. Insomma, difficile. E allora, siamo seri, perché si dovrebbe studiare? Beh, l’elenco non è breve e lo dividerò in parti: La Lingua del Viaggio Al primo posto vi è senz’altro l’esigenza di conoscere il Bel Paese. L’Italia è un piccolo territorio, il quale, tuttavia, possiede la maggior parte dei tesori artistici esistenti al mondo. Tante le tracce dei popoli che lo abitarono e che hanno lasciato testimonianze di storia e di bellezza. Ed ecco allora che si susseguirono, integrandosi, i popoli autoctoni, i Fenici, i Romani, i cosiddetti Barbari, gli Arabi, i successivi Principi e Mecenati, la Chiesa stessa. Una somma di monumenti, musei e opere d’arte impossibile da elencare. E non solo. Piccole e grandi comunità, borghi e città d’arte e lo stesso territorio, vario, dal mare, alle isole e alle montagne, regalano al viaggiatore panorami e sensazioni particolari e forti. L’Italia, al centro del Mediterraneo, è sempre stata un Paese dove i popoli si sono incontrati e mescolati. Forse per questo gli Italiani sono accoglienti e ben disposti verso gli stranieri. Parlare italiano significa anche conoscere le persone del posto, fare rapporto, dare e ottenere amicizia..Allora aver studiato la lingua, saper parlare e comprendere è fondamentale. Non è bello conversare con chi si incontra durante il cammino? Non è piacevole scambiare due chiacchiere al bar con quelli del tavolo accanto?
Tra i diversi motivi che spingono a studiare una lingua, l’Italiano, in questo caso, vi è anche quello di ridare un suono alla propria storia personale. Nella mia esperienza di insegnamento dell’italiano a stranieri, più di una volta mi sono trovata di fronte a studenti dagli inconfondibili nomi e cognomi italiani, ma che dell’Italia non avevano personali ricordi. Spesso mi parlavano di nonni o genitori che, per lavoro, lasciarono l’Italia. Accanto a racconti e ricordi indiretti, niente altro venne loro tramandato, per una volontaria rinuncia parentale alla propria lingua, in cambio di una possibile, rapida integrazione. Per la maggior parte, poi, non di lingua italiana nazionale si trattò, ma di dialetto regionale, poiché erano i più poveri, di solito semi o totalmente analfabeti, ad emigrare. Così, chi per amore, o chi per nostalgia ha mantenuto un rapporto linguistico con l’Italia, spesso si esprime in dialetto locale, peraltro cristallizzato al secolo passato (ma quanto adoro ascoltare l’incerto molisano di Robert De Niro, che per me resta l’eterno ragazzo di C’era una volta l’America!!). L’emigrazione italiana, soprattutto del centro sud, Sicilia compresa, è stata purtroppo una costante, a partire dall’Ottocento. Per questo, imparare l’Italiano significa per molti ritrovare il sogno di una terra perduta. E’ il recupero di una propria storia, di affetti lontani, di abitudini e tradizioni non del tutto scomparse, di una cultura che non ha perso la propria identità.
La Pasqua è ormai trascorsa da tempo. Quasi non ricordo più come l’ho festeggiata. Sicuramente sono passata, con troppo breve intervallo, dalla tipica colazione all’altrettanto tipico pranzo, a spese di un povero agnellino! E siccome ancora fatico ad eliminare uno o due chili di troppo, ho pensato di parlarvene per introdurre alcuni termini che mutano di genere, dal singolare al plurale. Ecco qua. Sode, “alla coque”, fritte e così via, nella tradizione italiana non possono mancare, ma anche altri, Francia, Germania, Croazia, Svezia, festeggiano come noi il giorno della resurrezione di Cristo con le uova, appunto, di Pasqua. Dipinte festosamente, sode o di cioccolato, sono alla base della colazione della domenica mattina. C’è chi, in Danimarca e negli Stati Uniti (Easter Egg Roll) perlustra boschi e giardini alla ricerca del simbolo della rinascita. Altri Paesi, invece, si popolano di coniglietti e pulcini per l’occasione. Ma “uovo o uova” in italiano? Ebbene, il termine fa parte di quella classe di parole (e ciò risulta abbastanza incomprensibile per gli stranieri), che al singolare sono di genere maschile, divenendo femminili al plurale. Altri sono braccio / braccia, dito / dita, ginocchio / ginocchia, osso / ossa, il cui cambio di genere (spesso con valore collettivo) si rifà alla forma del plurale latino neutro in -a. La cosa si complica quando al plurale, oltre al genere femminile, hanno anche il maschile: le dita della mano (tutte le dita che la compongono), ma preso ciascun dito singolarmente, al plurale il genere è maschile: i diti anulari (quelli dove di solito si mette l’anello). Lo stesso vale per gli altri termini: ossa riferendosi allo scheletro, ossi in altri casi, e così via. Dai, una volta capito il meccanismo, non è poi così difficile!! Proverbi: Meglio un uovo oggi che una gallina domani sarebbe la versione italiana del latino Carpe diem : prendere quello che ti capita senza pensarci, l’occasione potrebbe non ripresentarsi più !! Rompere le uova nel paniere, riferito a qualcuno o qualcosa che mette in crisi un progetto definito, a noi caro