In ufficio: accendere il pc, fare il download del file, scrivere una mail e aspettare il feeback. Poi, keep calm per un coffè break. easy!
In vacanza: nel weekend andare in economy in volo low cost e prenotare un hotel in una bella location, like!
A casa: sul network di Raichannel, guardare la soap-opera o il serial? La nomination o il concerto live? Lol!
Si potrebbe continuare per un bel po’e talvolta con la sensazione di nuotare nell’ esperanto. Un disagio che sembrerebbe alquanto condiviso: in un interessante sondaggio on line, cui hanno risposto per il 70% italiani alla domanda: “Qual è la parola straniera che ritiene più inopportuna nell’uso quotidiano della lingua italiana, scritta o parlata?”, sono inglesi le prime 15 parole in classifica (il decimo posto è di know how). Primo weekend (11%), poi ok (10%), welfare (8%), briefing (5%), mission (4%), location (3%), devolution (3%), bookshop (3%), computer (2%), ecc. Dando retta all’italico motto “Parla come mangi” (cioè in modo semplice ed immediato), perché usiamo l’inglese quando potremmo esprimerci in italiano? Per pigrizia? per una abitudine ormai invalsa nell’uso? Per necessità di maggiore sintesi? E ancora, sappiamo per certo il significato dei termini e li usiamo davvero nel modo giusto? Secondo il quotidiano inglese «Daily Telegraph» del 9 settembre 2008 «gli italiani cospargono le loro conversazioni di termini inglesi, alcuni dei quali comicamente storpiati e dal suono fantasioso per un qualsiasi parlante madrelingua inglese. “Baby parking”, per esempio, è una strana fusione che significa “asilo” o “asilo nido”. Una “baby gang”, d’altro canto, è un costrutto più sinistro. Designa un gruppo di giovanissimi criminali o teppisti». È ovvio che l’inglese spadroneggi: è la lingua che oggi (come il francese nel Settecento e parte dell’Ottocento) lancia nel mondo, attraverso gli affari, i commerci e la comunicazione, parole circonfuse da «quell’aura di prestigio che le porta a essere sentite – a seconda dei casi – come parole tecniche, scientifiche, autorevoli, divertenti, alla moda» (Giuseppe Antonelli, L’italiano nella società della comunicazione, Il Mulino, 2007). Il rischio, ma anche il dubbio è che i corrispettivi termini inglesi svuotino, in alcuni casi, i nostri di una temuta pericolosità che la lingua madre definisce invece senza ambiguità in tutto il suo significato reale. La politica, soprattutto negli ultimi anni, fa man bassa ( o“andare a man bassa o anche prendere a piene mani, espressioni che indicano l'uso esagerato di qualcosa) : outsourcing (delocalizzazione/esternalizzazione), off-shore (all’estero), default (bancarotta), deregulation (deregolamentazione), spending review (revisione/taglio della spesa), spread (scarto/divario), welfare (assistenza sociale/stato sociale), trend (tendenza), mission (missione). Uno degli ultimi “acquisti” è bipartisan (cioè un accordo che soddisfa entrambi gli schieramenti politici contrapposti): l’aggettivo, com’è facile capire, viene pari pari dall’inglese. Nessuno ha nemmeno tentato di italianizzarlo in bipartigiano anche se partigiano è aggettivo e sostantivo presente nella nostra lingua sin dal Quattrocento, e probabilmente all’origine anche del termine inglese: forse bipartisan ci trasmette meglio l’idea di un momento di politica imparziale, meno passionale? Ma perché la politica, assieme alle parole, dovrebbe perdere la passione? Non è che svuotando le parole del loro contenuto “affettivo” perdiamo anche noi qualcosa “dentro”? Allora, creiamo nuove parole?
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